La prima ricostruzione storica dal ‘900 sino ai giorni nostri della pizza italiana. Da Napoli a New York passando per Roma, Milano, il Veneto, Tramonti, Gragnano, San Paolo del Brasile, Vico Equense.
Dall’introduzione
Pizza. Quante parole come questa hanno lo stesso significato in tutto il mondo e in tutte le lingue? Certo, di marchi commerciali del mangiare e del bere universali ce ne sono quanti ne volete, ma un cibo ancestrale come questo – si tratta di un piatto che si mangia condito con i prodotti più svariati – non ha equivalenti.
Ecco perché non solo i napoletani pensano di esserne gli inventori, ma mentre con gli spaghetti la partita gastronomica sulla primogenitura è aperta solo con i cinesi, qui i concorrenti sono davvero tanti. Del resto basta viaggiare nei Paesi arabi per vedere come vengono usate le forme di pane circolare o negli Stati Uniti dove dominano le catene multinazionali che ne hanno imposto il consumo a fette.
Il successo mondiale di questo alimento è molto facile da spiegare: si tratta di un cibo facile, economico, pratico e, soprattutto, buono. Facile perché bastano poche settimane di apprendistato per imparare a farlo bene, anche a livello artigianale; economico perché quand’anche si mettessero sopra le materie prime più costose resta sempre una spesa sostenibile per tutti; pratico perché si trasporta con facilità e si consuma ovunque. Infine, buono perché le combinazioni tra acidità, grassi del latticino e carboidrati riescono subito ad appagare il palato e la fame.
Proprio perché replicabile, la pizza è stata portata in giro nel mondo dalle grandi catene multinazionali ma è innegabile che negli ultimi vent’anni c’è stata una ripresa del prodotto artigianale. E, nell’ambito di questo fenomeno, la pizza napoletana si è imposta come modello da seguire. Come mai?
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Il primo elemento che dobbiamo considerare è sicuramente il cambio dello stile di vita della popolazione mondiale con l’aumento dei pasti fuori casa. La pizzeria a Napoli è il luogo del pranzo per eccellenza, tanto che quelle storiche fino a non molti anni fa erano chiuse di sera. Un pasto completo e appagante, che serviva a tirare avanti fino alla sera, quando si tornava a casa. È nelle grandi città che la gente ha iniziato a mangiare nei locali pubblici usando spesso il cibo da strada e Napoli, fino all’inizio del Novecento, è stata la più popolosa metropoli italiana. Oggi anche in provincia non si rientra più a casa per il pranzo, le vecchie abitudini sopravvivono al massimo la domenica e nei giorni di festa; il papà che rientra dal lavoro e incontra i figli usciti da scuola a tavola per consumare il pranzo preparato dalla mamma, in Italia è ormai un lontano ricordo degli anni Sessanta. Il secondo elemento di successo è nella parola povertà. La pizza è un cibo povero perché ha materia prima semplice: farina, pomodoro, olio, un po’ di formaggio. Certo la crisi degli ultimi dieci anni non ha riportato la fame del Dopoguerra, ma ha sicuramente impoverito le famiglie e diminuito le loro capacità di spesa: così una famiglia tipo che va in pizzeria riesce a sostenere la spesa senza particolare sforzo, mentre il pranzo in trattoria implica un impegno diverso. Sicché in pizzeria ci si può andare anche due, tre volte la settimana.
Arriviamo al terzo elemento del successo, forse il più importante di tutti: la pizza è ecumenica, piace a tutte le generazioni, vecchi e bambini compresi, ed è il motivo per cui diventa sempre la scelta più facile.
No, non abbiamo citato l’elemento più importante, perché alla fine quel che conta davvero è la gioia, quella che si provava da piccoli quando a cena il papà andava a prendere le pizze da asporto e il profumo del forno della pizzeria riempiva la cucina. La pizza è gioia perché il cibo per gli italiani è gioia; siamo forse l’unico popolo che parla di mangiare mentre mangia.
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